Negli anni '50, dopo la guerra, ogni famiglia ha avuto la necessità di soddisfare il proprio bisogno primario di mangiare, ma anche di vestirsi. Così ogni donna doveva conoscere i tessuti, li acquistava, li lavorava e creava l'abbigliamento per la famiglia.
La conoscenza della qualità era alta e dovuta al bisogno.
Negli anni '60 lo sviluppo industriale ha affrancato le famiglie e ha visto nascere le prime confezioni industriali. Queste ultime hanno affiancato il sarto. Le donne hanno continuato a lavorare i tessuti, ma hanno anche iniziato a comprare il prodotto già confezionato.
La conoscenza della qualità era alta e legata alla competizione.
Negli anni '70 la crisi energetica ha ridotto i consumi, ma l'attitudine della donna nella famiglia è rimasta inalterata continuando a comprare tessuti. Quindi la donna non lavorava più personalmente i tessuti, ma commissionava i lavori di confezionamento alle sarte; le quali avevano imparato la lavorazione nelle prime fabbriche o laboratori artigiani.
La conoscenza della qualità rimaneva a buoni livelli.
Negli anni '80 ci sono stati movimenti giovanili legati alle mode, quindi il ricorso al prodotto acquistato è cresciuto. Da allora in poi, l'abbigliamento è diventato un marchio, un logo e uno slogan. Le donne hanno smesso di acquistare tessuti.
La conoscenza della "vera" qualità si è molto ridotta.
I sarti entrano a far parte delle specie in via di estinzione.
Negli anni '90, a causa dell'invasione dei prodotti importati dai paesi stranieri, c'è stato il definitivo tramonto della "cultura del fare" legata al tessile-abbigliamento.
Le politiche di marchio delle aziende e degli stilisti ci inducono a credere che la qualità sia sinonimo di marchio, ma non è sempre così.
La conoscenza della qualità è "commerciale".
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